La globalizzazione ha avuto un effetto, per assurdo, positivo sul mondo dell’artigianato. Essa ha creato un effetto boomerang paradossale, per il quale il prodotto fatto a mano ha un valore maggiore (emozionale, materiale, sociale) rispetto a quelli realizzati in serie.
Dai piatti ai bicchieri, dai mobili agli abiti, i consumatori sono in genere più disposti a pagare per oggetti che siano il frutto di una produzione consapevole, rispettosa della scarsità delle materie prime e dell’ambiente.
In più, si riconosce l’abilità dell’artigiano nel costruire un pezzo veramente unico, dove anche il piccolo difetto di fabbricazione è parte dell’unicità dell’esemplare acquistato. Un esempio estremo di questo ultimissimo aspetto sono le quotazioni folli delle ceramiche con lavorazione kintsugi, la tecnica di saldare insieme i cocci di un vaso rotto con del filo d’oro fuso.
Una moda passeggera o un riconoscimento autentico?
Si tratta di un caso limite, ovvio, che ci parla delle manie e delle mode passeggere che affliggono la nostra società: in generale però non si è mai pagato così tanto per dei pezzi di artigianato, che si tratti di articoli di pelletteria, tessuti a mano o di gioielleria. Quel che è peggio è che in lingua inglese – con l’italiano subito dietro – la parola “artisanal” è entrata di peso nel vocabolario moderno, attribuita a situazioni che di artigianale hanno poco o nulla.
Bisogna fare un passo indietro: il mondo moderno fa bene a riconoscere che l’artigiano – di qualunque tipo – porta con sé un bagaglio di saperi ai quali riconoscere un valore. Al tempo stesso, è fondamentale non mettersi contro i consumatori: l’artigiano non è un medico chirurgo, e farlo passare come tale è un danno all’intera categoria.